20.01.2016

Cinema Scuderie Granducali


INCONTRO CON ASCANIO CELESTINI

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INTERVISTA AD ASCANIO CELESTINI

Preferisce il teatro al cinema (ho iniziato facendolo e ancora lo faccio), ha diretto e scritto film, spettacoli, libri e trasmissioni radiofoniche, dichiara che il regista è “colui che ne sa meno di tutti quanti” ma è anche quello che ha una cosa in più: VEDE il film prima di tutti gli altri.

Ascanio Celestini, uno degli interpreti più apprezzati del teatro di narrazione italiano, celebre volto televisivo e scrittore impegnato, parla della vita di quartiere, della sua carriera e degli ultimi lavori, in occasione dello spettacolo Laika e della retrospettiva a lui dedicata dal Cinema Scuderie Granducali di Seravezza (LU) con i film La Pecora Nera e Viva la sposa, i cui temi abbracciano un argomento che gli sta particolarmente a cuore, l’umanità.

COME NASCE IL FILM LA PECORA NERA?

La Pecora nera nasce da un lavoro di ricerca iniziato nel 2002 e proseguito fino al 2005, con interviste in manicomi ed ex manicomi con persone, soprattutto infermieri, che avevano lavorato in psichiatria. Nel 2005 è diventato uno spettacolo, una trasmissione radiofonica, un libro e poi nel 2009 i produttori mi hanno chiesto di lavorare sul libro e scrivere una sceneggiatura, poi mi hanno proposto di fare la regia. È un film che passa attraverso altre storie, il teatro, la scrittura poi diventa film.

POI È ARRIVATO IL SECONDO FILM…

Quando mi hanno proposto un secondo film ho pensato che a me interessava scrivere una storia che fosse solo per il cinema, così ho iniziato a pensare a questa storia dove vi è un insieme di personaggi che vivono in un luogo, il Quadraro, Quartiere di Roma. L’idea è quella di un gruppo di personaggi sbandati che sono abbandonati in questa sorta di acquario che è il quartiere da cui non escono quasi mai. Lo abbiamo girato in uno spazio di 1 chilometro per 400 metri.

Mi interessava soprattutto quel quartiere, quelle strade, quel tipo di edilizia popolare perché metafora della condizione dei personaggi. Sono case popolari ma mai misere, hanno un loro senso, è possibile darvi un senso che va al di là di vedere delle persone povere. Il condominio in cui vivono 2 dei personaggi è stato progettato da un grande architetto, Adalberto Libera.

C’e’ qualcosa di molto umano in loro, non perdono mai la loro umanità. Dopo la proiezione a Venezia un signore ha detto che sono tutti colpevoli.

In una recente intervista al Fatto Quotidiano hai dichiarato che nel film volevi parlare dei perdenti ma che non è un film sui cosiddetti ultimi della società

Questa idea degli ultimi e della marginalità è un po’ assurda, un po’ quando noi parliamo del vicino Oriente e dell’estremo Oriente… ma rispetto a chi? Quelli che vivono lì non vivono nell’estremo oriente, vivono a casa loro… per cui questa idea degli aspetti marginali cos’è ? Marginali rispetto a cosa? C’è un punto di vista molto borghese per cui chi vive nel mio quartiere vive in periferia, chi sta a Tor Bella Monaca sta in periferia. Ma in periferia di cosa? Di casa tua, se tu sei fortunato e abiti a Piazza Navona. Sono gli ultimi perché tu sei un magistrato, uno scrittore famoso o appartieni ad una classe che si ritiene stia ai primi posti della società. Ma un macellaio che vende la carne nella mia borgata non si sente un ultimo per nessun motivo.

Il tuo spettacolo Laika è in un certo senso tratto da Viva la sposa

Questo racconto è in qualche modo vicino, l’ho scritto mentre scrivevo Viva la sposa e ho continuato a scriverlo mentre giravo e montavo il film per cui è come se fosse una storia simile ma raccontata da un punto di vista diverso. Nel film vediamo tutto, nel monologo dove l’immagine è quella che immagina lo spettatore ma non quella che vede coi propri occhi, è molto probabile che prenda una piega surreale.

Come cambia il linguaggio?

Cambia perché il racconto che faccio in scena sta tutto nella mia testa, sia quando lo scrivo che quando lo porto in scena, mentre il film finisce sul corpo, sulle voci delle persone, sui luoghi. Nel cinema, se non si fa un film sperimentale, si utilizza quello che Pasolini chiamava “un linguaggio naturale”, anche una fila di pioppi costituiscono un linguaggio perché qualcuno ha deciso che venissero messi in fila, l’uomo ha parlato attraverso la sua relazione con la natura, mentre nel racconto non abbiamo mai queste immagini e anzi, mostrarle, dal mio punto di vista, è deleterio. Nel mio lavoro quando uno spettatore ascolta una storia, ascolta e produce delle immagini che possono andare ovunque.

Tu sei un narratore, come vedi questo ruolo oggi?

Io ho iniziato molti anni fa e ho continuato a farlo. Cerami diceva che l’intellettuale quando parla non lo fa per guadagnarci qualcosa. Io credo che una persona che racconta storie non deve porsi troppo la questione del perché sta raccontando, ma forse neanche quali storie deve raccontare, perché poi rischia di diventare un teorico del proprio lavoro. Finisci per raccontare una storia perché è importante la storia, non perché è interessante il contenuto. È essenziale che un artista faccia non quello che ritiene sia importante, ma quello che ritiene più bello artisticamente.