Esplorare la questione delle difficoltà nella Gran Bretagna moderna
attraverso la storia di una giovane coppia che cerca di sopravvivere in
un mercato del lavoro occasionale.
LA RECENSIONE
di Federico Pontiggia
Ancora Newcastle, dopo I, Daniel Blake,
Palma d’Oro nel 2016, e ancora il caro vecchio Ken Loach, stavolta alle
prese con le nefandezze della gig economy, in particolare delle
consegne da un giorno per il successivo. In Concorso a Cannes 72, dove
ambisce alla terza Palma (nel 2006 per Il vento che accarezza l’erba la prima), Sorry We Missed You
inquadra una famiglia che sta per saltare in aria, complice appunto
l’economia dei lavoretti (gig economy), dove ognuno è padrone di se
stesso e schiavo di tutti gli altri. Tale è il capofamiglia Ricky (Kris
Hitchen), che perso il lavoro nelle costruzioni si reinventa corriere
freelance alle dipendenze, solo in termini vessatori, di tale
autoproclamato re degli stronzi Maloney (Ross Brewster). All’uopo, deve
farsi un furgone, e l’unica possibilità per ottenerlo è vendere l’auto
della moglie Abby (Debbie Honeywood), che assiste a domicilio anziani e
infermi con un contratto, capestro, a zero ore. Assorbiti e prostrati,
soprattutto Ricky, i due hanno poco tempo per occuparsi dei figli, Seb
(Rhys Stone) che si divide tra graffiti, poca scuola, qualche furto e il
rifiuto dell’autorità e Liza Jane (Katie Proctor), saggia e sensibile.
Non può non tornare in mente L’altra verità (2010), sui contractor in Iraq, non per il tema, ma per la rabbia che è il vero fil rouge di Sorry We Missed You – titolo beffardo, viene dal flyer per la mancata consegna, pas de sentiments
– e rischia persino di travolgerlo. Così totalizzante l’avversione di
Loach per la gig economy, e derivati, che il film sembra assemblare una
serie di sfortunati eventi ai danni, sopra tutto, di Ricky, affinché la
stigmatizzazione possa elevarsi a potenza: si rischia, così, non solo il
paradigmatico, ma anche il programmatico, con qualche spiegone,
esemplarità, “colpirne uno per educarne cento” di troppo.
Per carità, Loach ancora in team con il fedele Paul Laverty alla
scrittura pensa onesto e gira sincero, con una passione civile e una vis
politica senza eguali, ma al netto dell’empatia di Abby, della purezza
contagiosa di Kiza – Katie Proctor è un miracolo – si sente la grana del
saggio, l’architettura a tesi, e tesi giusta: manca, se non a tratti,
l’emozione gratuita e non funzionale allo stigma, ancor più, manca il
sol dell’avvenire, ovvero il riscatto equo e solidale. Che la gig
economy abbia annichilito anche i working class hero? Sta di fatto, la
rabbia di Loach è condivisibile, il film perfettibile o, meglio,
liberabile.